Storia della Protezione Civile
“La Protezione Civile è l’insieme delle attività messe in campo per tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti, gli animali e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni che derivano dalle calamità: previsione e prevenzione dei rischi, soccorso delle popolazioni colpite, contrasto e superamento dell’emergenza e mitigazione dei rischi.”
D. Lgs 1/2018
STORIA DELLA PROTEZIONE CIVILE
Fonte: Sito del Dipartimento della Protezione Civile – Presidenza del Consiglio dei Ministri
La storia della protezione civile in Italia è strettamente legata alle calamità che hanno colpito il nostro paese. Terremoti e alluvioni hanno segnato la storia e l’evoluzione del nostro Paese contribuendo a creare quella coscienza di protezione civile, di tutela della vita e dell’ambiente che ha portato alla nascita di un Sistema di Protezione Civile in grado di reagire e agire in caso di emergenza e di mettere in campo azioni di previsione e prevenzione. Nella fase immediatamente successiva ad una grande catastrofe, le innovazioni, le decisioni e le scelte sono favorite dal clima di forte emozione che dopo ogni disastro coinvolge l’opinione pubblica e le istituzioni.
Il concetto di protezione civile – come espressione di solidarietà, spirito di collaborazione e senso civico – ha radici lontane. La storia racconta di organizzazioni solidaristiche e di volontariato impegnate a portare aiuto in occasione di grandi emergenze già con gli ordini religiosi medievali e con le prime strutture laiche, come le Misericordie nate a Firenze tra il ‘200 e il ‘300 o i Vigili del Fuoco presenti da secoli nelle valli alpine.
L’Italia unita: i primi interventi normativi
Prima dell’Unità d’Italia l’organizzazione dei soccorsi è differenziata stato per stato. In occasione di grandi emergenze (terremoto della Val di Noto – 1693, terremoto in Calabria – 1783) le autorità centrali nominano un commissario con poteri eccezionali. A livello legislativo, esistono già delle norme antisismiche nello Stato Pontifico, nel Regno delle Due Sicilie e nel Ducato di Mantova, dove viene progettata la prima casa antisismica del mondo occidentale, ad opera di Pirro Logorio. Aggirandosi tra le rovine di Ferrara, colpita dal terremoto nel 1570, l’architetto è il primo rendersi conto di quanto sia importante costruire edifici solidi e ad affrontare il tema della sicurezza abitativa.
Con l’Italia unita entra in vigore lo Statuto Albertino, adottato dal Regno di Sardegna nel 1848. Per la loro natura geologica Piemonte e Sardegna non sono regioni sismiche, di conseguenza, in tutti gli stati annessi al Piemonte vengono abolite le norme relative alle prescrizioni edilizie antisismiche. Rimane, nel nuovo ordinamento unitario, la “tradizione” ingegneristica idraulica sviluppatasi nei territori del nord per il controllo dei fiumi.
Dare aiuto e soccorrere le popolazioni sinistrate non è compito prioritario dello Stato: il soccorso rientra nel concetto di generosità pubblica e gli interventi dei militari, che da sempre rappresentano l’ossatura dei soccorsi, vengono considerati opere di beneficenza. Durante l’alluvione di Roma del dicembre 1870, i primi a offrire soccorso sono le truppe dell’esercito che due mesi prima avevano conquistato la città (Breccia di Porta Pia).
Il quadro legislativo post unitario è frammentario e poco organico, limitandosi a prevedere interventi in seguito a particolari contingenze e calamità o per specifiche materie. Tutti i provvedimenti urgenti adottati per fronteggiare le emergenze nell’immediato trovano il loro fondamento normativo nel potere d’ordinanza concesso all’autorità amministrativa dalla legge n. 2359 del 25 giugno 1865. Prefetti e sindaci possono disporre della proprietà privata in caso rottura degli argini, di rovesciamento di ponti e in generale in tutti i casi di emergenza.
In generale, al verificarsi di un’emergenza vengono mobilitati Esercito e Forze dell’ordine, i primi ad accorrere sul luogo del disastro. L’iter di gestione delle emergenze è rigido e codificato e comincia solo nel momento in cui la notizia del disastro arriva ufficialmente sul tavolo del Presidente del Consiglio, che svolge anche funzioni di Ministro dell’Interno. Il dispaccio parte dalla fitta rete di prefetture presenti sul territorio e può arrivare dopo poche ore, giorni, ma anche dopo settimane dall’evento. Le emergenze vengono considerate nazionali solo se colpiscono obiettivi strategici per la viabilità e le strutture di pubblica utilità. Valutata la portata dell’evento, scatta la mobilitazione dei Ministro dell’Interno e della Guerra, che fa accorrere i reparti più vicini della zona colpita. In maniera spontanea e non coordinata si attivano anche soccorritori volontari, enti religiosi e associazioni che affiancano il lavoro dei militari.
Nel 1906 vengono emanate alcune disposizioni particolari sulle eruzioni vulcaniche, la difesa degli abitanti e delle strade dalle frane, le alluvioni, le mareggiate e gli uragani. Nel 1908, dopo il disastroso terremoto di Messina, viene introdotta la classificazione antisismica del territorio ed entra in vigore la prima normativa antisismica.
La prima normativa organica: l’accentramento
La prima legge sul soccorso è il Rdl n. 1915 del 2 settembre 1919, che dà un primo assetto normativo ai servizi del pronto soccorso in caso di calamità naturali, anche se limitato ai soli terremoti. Il Ministero dei Lavori Pubblici è l’autorità responsabile della direzione e del coordinamento dei soccorsi, da cui dipendono tutte le autorità civili, militari e locali.
Occorre attendere il 1925 per una prima normativa organica in materia di protezione civile: la Legge n. 473 del 17 aprile individua nel Ministero dei Lavori Pubblici e nel suo braccio operativo, il Genio Civile, gli organi fondamentali per il soccorso, con il concorso delle strutture sanitarie.
Il Rdl n. 2389 del 9 dicembre 1926, convertito nella legge n. 833 del 15 marzo 1928, definisce ulteriormente l’organizzazione dei soccorsi e conferma la responsabilità del Ministero dei LL.PP nel dirigere e coordinare gli interventi anche delle altre amministrazioni ed enti dello stato, come i Pompieri, le Ferrovie dello Stato, la Croce Rossa ecc. I soccorsi non si limitano ai soli “disastri tellurici”, ma vengono estesi a quelli “di altra natura”.
In attesa dell’arrivo sul luogo del disastro del Ministro dei Lavori Pubblici, o del Sottosegretario di Stato, tutte le autorità civili e militari dipendono dal Prefetto, rappresentante del governo nella provincia, che coordina i primissimi interventi. Stesso potere viene affidato ai sindaci sul territorio comunale: appena venuti a conoscenza dell’evento, devono inviare sul luogo i Pompieri e il personale a loro disposizione, dandone immediata notizia al Prefetto. Il personale di soccorso e gli scavi delle macerie vengono coordinati invece dal Genio Civile. Vengono chiamati a concorrere, a diverso titolo l’Aeronautica, l’Esercito, il Ministero per le Comunicazioni e la Croce Rossa Italiana.
Nel dopoguerra, sull’onda del clima di rinnovamento post conflitto mondiale, si cerca di arrivare ad una legislazione organica in materia di protezione civile: negli anni 1950, 1962 e 1967 vengono infruttuosamente presentati alcuni progetti di legge. Ma ancora una volta, sono gli eventi calamitosi ad aprire la strada alla predisposizione e all’approvazione di nuovi e più idonei strumenti legislativi.
L’alluvione di Firenze del 1966, la prima emergenza seguita dai media di tutto il mondo, evidenzia l’inadeguatezza della struttura centrale dei soccorsi. Causa l’assenza di una rete di monitoraggio l’esondazione dell’Arno non viene preannunciata con un certo anticipo e i cittadini vengono colti di sorpresa. Nei primi giorni gli aiuti e i soccorsi arrivano quasi esclusivamente dai volontari (“gli angeli del fango”) e dalle truppe di stanza in città. Solo sei giorni dopo l’alluvione il governo è in grado di mettere in campo una rete di soccorso organizzata. Anche in occasione del terremoto del Belice del 1968 (236 morti) la gestione dell’emergenza si rivela un vero e proprio fallimento per la mancanza di coordinamento tra le forze in campo. Anche le scelte per la ricostruzione si rivelano sbagliate: la popolazione viene incentivata ad allontanarsi dai centri storici colpiti e vengono realizzati nuovi insediamenti del tutto estranei alle tradizioni e stili di vita locali.
La svolta arriva con la legge n. 996 dell’8 dicembre 1970, la prima vera e propria legge che delinea un quadro complessivo di interventi di protezione civile: “Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità – Protezione Civile”.
Per la prima volta il nostro ordinamento recepisce il concetto di protezione civile e precisa la nozione di calamità naturale e catastrofe. Si afferma quindi il concetto di protezione civile intesa come predisposizione e coordinamento degli interventi e si individuano i compiti fondamentali affidati ai vari organi della protezione civile per una razionale organizzazione degli interventi e per far arrivare nel modo più rapido ed efficace i soccorsi alle popolazioni colpite.
La direzione e il coordinamento di tutte le attività passano dal Ministero dei Lavori Pubblici al Ministero dell’Interno. E’ prevista la nomina di un commissario per le emergenze, che sul luogo del disastro dirige e coordina i soccorsi. Per assistere la popolazione dalla prima emergenza al ritorno alla normalità vengono creati i Centri Assistenziali di Pronto Intervento (Capi). Per un miglior coordinamento dell’attività dei vari ministeri viene istituito il Comitato Interministeriale della Protezione Civile.
Per la prima volta viene riconosciuta l’attività del volontariato di protezione civile: è il Ministero dell’Interno, attraverso i Vigili del Fuoco, ad istruire, addestrare ed equipaggiare i cittadini che volontariamente offrono il loro aiuto.
Terremoto in Friuli 1976La legge 96/70 privilegia il momento dell’emergenza: di fatto si disciplina solo il soccorso da mettere in campo nell’immediatezza dell’evento. Il regolamento d’esecuzione della legge viene approvato solo dopo 11 anni; nel frattempo rovinosi terremoti colpiscono nel 1976 il Friuli e nel 1980 la Campania.
In occasione di questi due grandi terremoti, che provocano rispettivamente 976 e 2570 vittime, la gestione dell’emergenza e della ricostruzione è molto diversa, anche se i primi giorni sono caratterizzati in entrambi i casi dalla lentezza dei soccorsi e dalla mancanza di coordinamento.
In Friuli Venezia Giulia vengono coinvolti da subito il governo regionale e i sindaci dei comuni colpiti, che lavorano in stretto contatto con il Commissario straordinario (Giuseppe Zamberletti) fin dall’inizio dell’emergenza. Per la prima volta vengono istituiti i “centri operativi”, con l’obiettivo di creare in ciascun comune della zona colpita un organismo direttivo composto dai rappresentanti delle amministrazioni pubbliche e private, sotto la presidenza del sindaco, con il potere di decidere sulle operazioni di soccorso, conoscendo le caratteristiche del territorio e le sue risorse. Anche nella fase della ricostruzione viene dato potere decisionale ai sindaci per avere un controllo diretto sul territorio che allo stesso tempo faccia sentire le istituzioni vicine ai cittadini. La popolazione partecipa attivamente alla ricostruzione del tessuto sociale e urbano secondo il “modello Friuli”, “com’era, dov’era”, completata in poco più di 15 anni.
La gestione dell’emergenza dopo il terremoto dell’Irpinia è fallimentare, sia nelle prime ore post sisma sia nella successiva fase della ricostruzione. I primi soccorsi sono caratterizzati dalla totale mancanza di coordinamento: volontari, strutture regionali e autonomie locali si mobilitano spontaneamente senza aver avuto indicazioni e precisi obiettivi operativi dal Ministero dell’Interno. Dopo il caos dei primi tre giorni, il governo interviene nominando il Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, che riesce a riorganizzare i soccorsi e a dialogare con i sindaci.
Di fronte a queste catastrofi il sistema dei soccorsi mostra tutti i suoi limiti: si apre un dibattito civile e culturale con l’obiettivo di superare il vecchio assetto operativo. Comincia a farsi strada l’idea che i disastri vadano affrontati dopo averli “immaginati, descritti e vissuti” prima e che occorra dimensionare le strutture di intervento tenendo conto di scenari già elaborati e di misure di prevenzione già messe in atto. Si comincia a parlare di protezione civile non solo come soccorso, ma anche come previsione e prevenzione.
I tempi sono ormai maturi per un cambiamento radicale.
La legge 225/92: nasce il Servizio Nazionale
Nel 1981 il regolamento d’esecuzione della legge n. 996 del 1970 individua per la prima volta gli organi ordinari (Ministro dell’Interno, Prefetto, Commissario di Governo nella Regione, Sindaco) e straordinari di protezione civile (Commissario straordinario), e ne disciplina le rispettive competenze. La protezione civile viene definita compito primario dello Stato. Si comincia a parlare di prevenzione degli eventi calamitosi, attraverso l’individuazione e lo studio delle loro cause. Sono gli organi statali – Prefetto e Commissario di governo – a svolgere il ruolo più importante nella gestione dell’emergenza.
Nel 1982 viene formalizzata la figura del Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile (legge n.938 del 1982), una sorta di “commissario permanente” pronto ad intervenire in caso di emergenza. Si evita così di individuare ogni volta un commissario e creare ex novo la macchina organizzativa. Il Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile si avvale del Dipartimento della Protezione Civile, istituito sempre nel 1982 nell’ambito della Presidenza del Consiglio (Ordine di Servizio del 29 aprile). Invece di istituire un apposito ministero, con una struttura burocratica e di pari rango rispetto agli altri ministeri, si sceglie di creare un organismo snello, sovra ministeriale, capace di coordinare tutte le forze di cui il Paese può disporre.
Il Dipartimento della Protezione Civile raccoglie informazioni e dati in materia di previsione e prevenzione delle emergenze, predispone l’attuazione dei piani nazionali e territoriali di protezione civile, organizza il coordinamento e la direzione dei servizi di soccorso, promuove le iniziative di volontariato, e coordina la pianificazione d’emergenza, ai fini della difesa civile.
La protezione civile si muove ormai lungo quattro direttrici principali: previsione, prevenzione, soccorso, ripristino della normalità.
La svolta definitiva arriva con la legge n. 225 del 1992 e la nascita del Servizio Nazionale della Protezione Civile, con il compito di “tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e altri eventi calamitosi”. La struttura di protezione civile viene riorganizzata profondamente come un sistema coordinato di competenze al quale concorrono le amministrazioni dello Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti locali, gli enti pubblici, la comunità scientifica, il volontariato, gli ordini e i collegi professionali e ogni altra istituzione anche privata.
Tutto il sistema di protezione civile si basa sul principio di sussidiarietà. La prima risposta all’emergenza, qualunque sia la natura e l’estensione dell’evento, deve essere garantita a livello locale, a partire dalla struttura comunale, l’istituzione più vicina al cittadino. Il primo responsabile della protezione civile è quindi il Sindaco: in caso di emergenza assume la direzione e il coordinamento dei soccorsi e assiste la popolazione, organizzando le risorse comunali secondo piani di emergenza prestabiliti per fronteggiare i rischi specifici del territorio.
Quando un evento non può essere fronteggiato con i mezzi a disposizione del comune, si mobilitano i livelli superiori attraverso un’azione integrata: la Provincia, la Prefettura, la Regione, lo Stato.
Questo complesso sistema di competenze trova il suo punto di collegamento nelle funzioni di impulso e coordinamento affidate al Presidente del Consiglio dei Ministri, che si avvale del Dipartimento della Protezione Civile.
La legge 225/92 definisce le attività di protezione civile: oltre al soccorso e alle attività volte al superamento dell’emergenza, anche la previsione e la prevenzione. Il sistema non si limita quindi al soccorso e all’assistenza alla popolazione, ma si occupa anche di definire le cause delle calamità naturali, individuare i rischi presenti sul territorio e di mettere in campo tutte le azioni necessarie a evitare o ridurre al minimo la possibilità che le calamità naturali provochino danni.
Gli eventi calamitosi vengono classificati, per estensione e gravità, in tre diversi tipi. Per ogni evento si individuano i competenti livelli di protezione civile che devono attivarsi per primi: a (livello comunale), b (provinciale e regionale) e c (Stato). In caso di evento di “tipo c”, che devono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari, la competenza del coordinamento dei soccorsi viene affidata al Presidente del Consiglio dei Ministri, che può nominare Commissari delegati.
Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio, delibera lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale. Il Presidente del Consiglio può emanare ordinanze di emergenza e ordinanza finalizzate ad evitare situazioni di pericolo o danni a persone o cose.
Presso il Dipartimento della Protezione Civile vengono istituiti la Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi, che svolge attività di consulenza tecnico-scientifica in materia di previsione e prevenzione, e il Comitato Operativo della Protezione Civile. Vengono definite le Componenti e le Strutture Operative del Servizio Nazionale della Protezione Civile.
Il Servizio Nazionale riconosce le iniziative di volontariato civile e ne assicura il coordinamento. La Legge 225 inserisce il volontariato tra le componenti e le strutture operative del Servizio Nazionale e stabilisce che deve essere assicurata la più ampia partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni di volontariato di protezione civile nelle attività di previsione, prevenzione e soccorso, in vista o in occasione di calamità naturali o catastrofi.
Storicamente la Legge 225 rappresenta un momento di passaggio tra la fase accentrata e decentrata: le competenze operative rimangono in capo all’amministrazione centrale e periferica dello Stato, ma per la prima volta aumenta notevolmente il peso delle Regioni, delle Province e dei Comuni, soprattutto per quanto riguarda la previsione e la prevenzione.
Il decreto Bassanini e la riforma del Titolo V: il decentramento
A partire dai primi anni ’90 la domanda regionalista/federalista condiziona e orienta il dibattito politico. In risposta a questa domanda, governo, parlamento e quasi tutte le forze politiche concordano in un consistente trasferimento di competenze dal centro alla periferia, sulla base dei principi di “sussidiarietà” e “integrazione”, in modo da avvicinare la soluzione dei problemi ai cittadini e ai rappresentanti dei cittadini. Di conseguenza alcune importanti funzioni statali passano alle Regioni e agli enti locali e funzioni regionali passano agli enti locali.
In questo contesto viene ridefinita anche la materia della protezione civile. Il decreto legislativo n. 112 del 1998 – attuativo della legge Bassanini – ridetermina l’assetto della protezione civile, da un lato trasferendo importanti competenze alle autonomie locali – anche di tipo operativo – e dall’altro introducendo una profonda ristrutturazione anche per le residue competenze statali. Il quadro normativo di riferimento resta sempre la legge 225/92.
La protezione civile viene considerata materia a competenza mista: alle Regioni e agli enti locali vengono affidate tutte le funzioni ad esclusione dei compiti di “rilievo nazionale del Sistema di Protezione Civile”.
Restano compiti dello Stato:
• l’indirizzo, la promozione e il coordinamento delle attività in materia di protezione civile;
• la deliberazione e la revoca – d’intesa con le regioni interessate – dello stato di emergenza in casi di eventi di tipo “c”;
• l’emanazione di ordinanze;
• l’elaborazione dei piani di emergenza nazionali (per affrontare eventi di tipo “c”) e l’organizzazione di esercitazioni.
Le Regioni si occupano di:
• predisporre i programmi di previsione e prevenzione dei rischi, sulla base degli indirizzi nazionali;
• attuare gli interventi urgenti quando si verificano interventi di tipo “b”, avvalendosi anche del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco;
• l’organizzazione e l’impiego del volontariato.
Le Province attuano, a livello provinciale, le attività di previsione e prevenzione dei rischi; predispongono i piani provinciali di emergenza e vigilano sulla predisposizione, da parte delle strutture provinciali, dei servizi urgenti da attivare in caso di emergenza (eventi di tipo “b”).
I Comuni attuano, a livello comunale, le attività di previsione e prevenzione dei rischi; predispongono i piani comunali di emergenza, adottano i provvedimenti necessari ad assicurare i primi soccorsi e organizzano l’utilizzo del volontariato di protezione civile comunale.
Il percorso verso il decentramento si chiude con la riforma del Titolo V della Costituzione (Legge costituzionale n. 3 del 2001). Per la prima volta la Carta costituzionale si occupa espressamente della materia di protezione civile, inserendola tra le materie a legislazione concorrente, e quindi, di competenza regionale (nell’ambito dei principi fondamentali dettati dalle leggi-quadro). Resta fermo il potere d’ordinanza attribuito al Presidente del Consiglio, mentre scompare la figura del Commissario di Governo.
L’assetto generale della Protezione Civile subisce ulteriori modifiche anche alla luce dei decreti legislativi 300/99 e 303/99 che – riformando l’ordinamento della Presidenza del Consiglio e l’organizzazione del Governo – vanno a modificare profondamente gli assetti organizzativi della Pubblica Amministrazione.
Con il decreto legislativo n. 300 del 1999 viene istituita l’Agenzia di Protezione Civile. L’intero assetto del sistema di protezione civile viene rivoluzionato: anziché il Presidente del Consiglio e il Dipartimento della Protezione Civile, al vertice del sistema vengono collocati il Ministro dell’Interno – con funzioni di indirizzo politico-amministrativo e di controllo – e l’Agenzia di Protezione Civile, con compiti tecnico-operativi e scientifici. All’Agenzia vengono trasferite le funzioni del Dipartimento della Protezione Civile.
La creazione dell’Agenzia nasce anche dalla volontà di ricondurre l’attività della Presidenza del Consiglio alle tradizionali funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento, eliminando le funzioni più prettamente operative.
Dalla 401/2001 alla 152/2005: i grandi eventi e le emergenze all’estero
Con la legge n. 401 del 2001 le competenze dello Stato in materia di protezione civile vengono ricondotte in capo al Presidente del Consiglio, la neonata Agenzia di Protezione Civile viene abolita e il Dipartimento della Protezione Civile viene ripristinato, nell’ambito della Presidenza del Consiglio. I compiti del Presidente del Consiglio corrispondono a quelli già individuati dalla legge 225/92 e dal D.Lgs 112/98.
Per esercitare le proprie competenze il Presidente del Consiglio si avvale del Dipartimento della Protezione Civile. Di fatto, il Capo Dipartimento svolge una funzione di coordinamento operativo di tutti gli enti pubblici e privati. Oltre a questo, il Dipartimento promuove – d’intesa con le Regioni e gli enti locali – lo svolgimento delle esercitazioni, l’informazione alla popolazione sugli scenari nazionali e l’attività di formazione in materia di protezione civile.
Come contrappeso alla ritrovata centralità del ruolo del Presidente del Consiglio, viene istituito presso la Presidenza del Consiglio un Comitato paritetico Stato – Regioni – Enti Locali.
Una delle novità più importanti della legge 401/2001 è l’introduzione, nell’ambito della protezione civile, dei cosiddetti “grandi eventi”. La dichiarazione di “grande evento”, così come per lo stato di emergenza, comporta l’utilizzo del potere di ordinanza.
Un ultimo importante passaggio dal punto di vista normativo è rappresentato dalla legge n. 152 del 2005, che estende il potere d’ordinanza anche per gli eventi all’estero, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza.
Con l’entrata in vigore della legge del 24 marzo 2012, n. 27 viene modificata la normativa riguardante i grandi eventi e la loro gestione non rientra più nelle competenze della Protezione Civile.
La legge 100/2012: la riforma del Servizio Nazionale
A vent’anni dalla sua nascita il Servizio Nazionale della Protezione Civile viene riformato. Il decreto legge n. 59 del 15 maggio 2012 convertito nella legge n. 100 del 12 luglio 2012 modifica e integra la legge n. 225 del 1992, istitutiva del Servizio. Le attività della Protezione Civile vengono ricondotte al nucleo originario di competenze definito dalla legge 225/1992, dirette principalmente a fronteggiare le calamità e a rendere più incisivi gli interventi nella gestione delle emergenze. Viene ribadito il ruolo di indirizzo e coordinamento del Dipartimento della Protezione Civile delle attività delle diverse componenti e strutture operative del Servizio Nazionale.
La legge 100/2012 va a toccare – tra gli altri – alcuni temi chiave per tutto il sistema: la classificazione degli eventi calamitosi, le attività di protezione civile, la dichiarazione dello stato di emergenza e il potere d’ordinanza. In questo senso, la legge ridefinisce la prima fase dell’emergenza, ponendo l’accento sul “fattore tempo”. Viene specificato che i mezzi e i poteri straordinari per fronteggiare le calamità (eventi di tipo “c”) vanno utilizzati per interventi temporali limitati e predefiniti: la durata dello stato di emergenza di regola non può superare i 90 giorni, con possibilità di proroga per altri 60 giorni*. Lo stato di emergenza può essere dichiarato anche “nell’imminenza” e non solo “al verificarsi” dell’evento calamitoso e prevede, da subito – altro passaggio importante della legge – l’individuazione dell’amministrazione competente in via ordinaria che prosegue le attività, una volta scaduto lo stato di emergenza.
Le ordinanze di protezione civile necessarie alla realizzazione degli interventi per contrastare e superare l’emergenza sono di norma emanate dal Capo Dipartimento della Protezione Civile e non più dal Presidente del Consiglio dei Ministri e i loro “ambiti di interesse”, per la prima volta, sono definiti dalla legge. Le ordinanze emanate entro trenta giorni dalla dichiarazione dello stato di emergenza sono immediatamente efficaci, mentre quelle successive richiedono il concerto del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Viene così annullata la norma della legge n. 10 del 26 febbraio 2011, che introduceva il controllo preventivo del Ministero dell’Economia per quelle ordinanze che prevedevano lo stanziamento o l’impiego di denaro, rallentando di fatto l’entrata in vigore di provvedimenti considerati urgenti e rendendo macchinoso il coordinamento degli interventi. Con il rischio di svuotare così “l’operatività” di tutto il sistema di protezione civile.
La legge 10/2011 introduceva altre importanti modifiche alla legge 225/1992 relative al reperimento delle risorse per fronteggiare l’emergenza. Tra queste, quella che è stata definita dai media la “tassa sulle disgrazie”. Si stabiliva infatti che fossero le Regioni a individuare nei propri bilanci i fondi necessari, facendo ricorso anche a tassazioni aggiuntive, fino all’aumento dell’imposta regionale sulla benzina. Una successiva sentenza della Corte Costituzionale (la n. 22 del 16 febbraio 2012) aveva già dichiarato illegittimo questo passaggio della legge 10/2011. La legge 100/2012 ha infine chiarito che lo stato di emergenza viene finanziato con il Fondo nazionale di protezione civile, la cui dotazione è determinata annualmente dalla legge di stabilità. Il Fondo può essere reintegrato anche con entrate derivanti dall’aumento delle accise sulla benzina.
Altri passaggi significativi della legge100/2012 riguardano le attività di protezione civile. Accanto alle attività di “previsione e prevenzione dei rischi” e di “soccorso delle popolazioni” viene meglio specificato il concetto di “superamento dell’emergenza”, cui si associa ogni altra attività necessaria e indifferibile diretta al “contrasto dell’emergenza” e alla “mitigazione del rischio” connessa con gli eventi calamitosi. Le attività di prevenzione vengono esplicitate e per la prima volta si parla chiaramente di allertamento, pianificazione d’emergenza, formazione, diffusione della conoscenza di protezione civile, informazione alla popolazione, applicazione della normativa tecnica e di esercitazioni. Il sistema di allerta nazionale per il rischio meteo-idrogeologico e idraulico viene inquadrato in maniera organica, riprendendo così i vari provvedimenti che negli anni hanno disciplinato le attività di allertamento ai fini di protezione civile.
La legge 100/2012 ribadisce poi il ruolo del Sindaco come autorità comunale di protezione civile, precisandone i compiti nelle attività di soccorso e assistenza alla popolazione. Una novità importante riguarda i piani comunali di emergenza, che devono essere redatti entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge, e periodicamente aggiornati.
Altre questioni toccate dalla legge 100/2012 che non modificano direttamente la legge 225/1992 riguardano la proprietà della flotta aerea antincendio dello Stato – che passa dal Dipartimento della
Protezione Civile (Presidenza del Consiglio) al Dipartimento dei Vigili del Fuoco (Ministero dell’Interno) – e i grandi eventi, per i quali vengono definiti alcuni dettagli relativi alle ultime gestioni commissariali, dopo che la legge n. 27 del 24 marzo 2012 aveva già stabilito non competessero più alla protezione civile.
Un anno dopo, la legge n. 119 del 15 ottobre 2013 modifica nuovamente la legge 225/1992 intervenendo sulla durata dello stato di emergenza, sugli ambiti di intervento delle ordinanze di protezione civile e sulla definizione delle risorse necessarie a far fronte alle emergenze. In particolare, la legge 119/2013 stabilisce che la durata dello stato di emergenza non può superare i 180 giorni e può essere prorogato fino a ulteriori 180 giorni. L’amministrazione competente in via ordinaria allo scadere dello stato dell’emergenza viene individuata non più nella deliberazione dello stato di emergenza del Consiglio dei Ministri, ma nell’ordinanza di subentro che viene emanata allo scadere dello stato di emergenza.
Il Fondo da cui vengono attinte le risorse per fronteggiare le emergenze è definito “Fondo per le emergenze nazionali” e sostituisce il “Fondo nazionale di protezione civile”. Le risorse finanziarie da destinare agli interventi per l’emergenza – in particolare quelle destinate alle attività di soccorso e di assistenza alla popolazione – sono definite nella delibera con cui è dichiarato lo stato di emergenza, nell’attesa della ricognizione dei fabbisogni effettivi che farà il Commissario delegato. Se le risorse non sono sufficienti possono essere integrate con un’ulteriore delibera del Consiglio dei Ministri.
Il 17 marzo 2017 viene approvata la legge delega al Governo per il riordino delle disposizioni legislative in materia di sistema nazionale e coordinamento della protezione civile. Entro nove mesi dall’entrata in vigore, il Governo deve adottare uno o più decreti legislativi di ricognizione, riordino, coordinamento, modifica e integrazione delle disposizioni legislative vigenti. La legge delega – che ribadisce come le attività di protezione civile comprendano la previsione, la prevenzione e la mitigazione dei rischi, la pianificazione e la gestione delle emergenze, nonché le misure per rimuovere gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita – prevede, tra l’altro, che si definisca, con i decreti governativi, l’organizzazione di un sistema policentrico che operi a livello centrale, regionale e locale, prevedendo la possibilità di definire livelli di coordinamento intermedi tra la dimensione comunale e quella regionale. Altro punto centrale nella delega che il Parlamento ha dato al Governo riguarda la disciplina della partecipazione e delle responsabilità dei cittadini, singoli e associati, alle attività di protezione civile, allo scopo di promuovere la resilienza delle comunità, anche attraverso la consapevolezza dei diritti e dei doveri di ciascuno.
Il Codice di Protezione Civile: cosa cambia
Dal 2 gennaio 2018, il Servizio Nazionale è disciplinato dal Codice della Protezione Civile (Decreto legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018), con il quale è riformata tutta la normativa in materia.
Il Codice nasce con l’obiettivo di semplificare e rendere più lineari le disposizioni di protezione civile, racchiudendole in un unico testo di facile lettura. Per rispondere a questo obiettivo di semplificazione, ogni articolo esplicita chiaramente le norme che sostituisce e, nei due articoli conclusivi (artt. 47 e 48), offre anche un coordinamento dei riferimenti normativi e l’elenco completo di tutte le norme che attraverso il Codice sono abrogate.
La riforma ribadisce un modello di Servizio Nazionale policentrico. Anche per questo il Codice è stato scritto in modo diverso rispetto ad altre norme ed è stato elaborato da un gruppo di redazione composto da rappresentanti di Dipartimento della Protezione Civile, Regioni, Comuni, Ministeri, Volontariato di protezione civile.
La prima proposta di riordino della normativa in materia di protezione civile è dunque frutto del lavoro di un gruppo misto e tale scelta ha influito sulla impostazione collettiva del Codice, nato da un confronto aperto su criticità e punti di forza della pregressa normativa in materia.
Ma perché l’esigenza di un riordino della protezione civile? Dalla prima legge del Ministro dei Lavori Pubblici che nel 1926 regolamenta il tema del coordinamento “di protezione civile”, fino ad arrivare alla legge 225/1992, istitutiva del Servizio Nazionale, norme e modifiche seguono l’andamento storico e le emergenze del Paese. La volontà di riformare la normativa di protezione civile arriva quando la legge 225/1992 ha 25 anni e ed è già stata modificata in modo anche intensivo. Ulteriori variazioni e integrazioni di protezione civile, stratificate nel tempo, passano anche attraverso altri corpi normativi e tutti questi fattori rendono la lettura dell’ordinamento in materia molto difficile. Il nuovo Codice, che punta alla semplificazione, lo fa attraverso la consapevolezza che il mondo di oggi è complesso e che quindi anche la normativa in materia di protezione civile deve tenere conto di tale complessità, governandola. Disciplinando infatti attività di previsione, prevenzione e mitigazione dei rischi, ma anche di gestione delle emergenze e loro superamento, il Codice ha l’obiettivo di garantire una operatività lineare, efficace e tempestiva.
Di seguito, per punti, i principali elementi di novità introdotti dal Codice:
Previsione e prevenzione. In materia di previsione, il Codice prevede innovazioni relative allo studio anche dinamico degli scenari di rischio possibili. L’attività di previsione è propedeutica alle attività del sistema di allertamento e alla pianificazione di protezione civile. Relativamente alle attività di prevenzione si tiene conto dell’evoluzione della materia nel tempo esplicitando che l’ambito della prevenzione è sia strutturale sia non strutturale, anche in maniera integrata. La prevenzione non strutturale è composta da una serie di attività in cui spiccano l’allertamento e la diffusione della conoscenza di protezione civile su scenari di rischio e norme di comportamento e la pianificazione di protezione civile. La prevenzione strutturale è reintrodotta come “prevenzione strutturale di protezione civile”, a sottolineare l’esistenza di temi di protezione civile specifici quando si parla di prevenzione strutturale. Un ruolo specifico, in cui il Dipartimento della Protezione Civile è integrato nei tavoli di lavoro dove le linee di prevenzione strutturale sono definite. Sono inoltre disciplinati gli interventi strutturali di mitigazione del rischio in ambito emergenziale. Si precisa infine la necessità di azioni integrate di prevenzione strutturale e non strutturale.
Gestione delle emergenze nazionali. Prima del Codice, l’intervento nazionale, compresa l’attivazione di strumenti straordinari, era subordinato alla dichiarazione dello stato di emergenza. L’attivazione preventiva era rimessa all’autonoma valutazione degli Enti competenti. Lo stato di mobilitazione, introdotto dal Decreto Legislativo n. 1 del 2 gennaio 2018, supera questo limite e consente al sistema territoriale di mobilitare le sue risorse e di chiedere anche il concorso delle risorse nazionali, anche prima della dichiarazione dello stato di emergenza. Se l’evento si tramuta in calamità, si mette in moto la macchina emergenziale. In caso contrario, con un atto unilaterale del Capo Dipartimento si possono riconoscere i costi sostenuti da parte di chi si è preventivamente attivato.
Durata dello stato di emergenza. Il Codice ridefinisce la durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale, portandola a un massimo di 12 mesi, prorogabile di ulteriori 12 mesi.
Pianificazione di protezione civile. Il Codice ribadisce il ruolo chiave della pianificazione e punta al superamento di una concezione “compilativa” di Piano in favore di una visione evoluta volta a rendere questo strumento pienamente operativo.
Rischi di protezione civile. Il Codice esplicita le tipologie di rischio di cui si occupa la protezione civile: sismico, vulcanico, da maremoto, idraulico, idrogeologico, da fenomeni meteorologicamente avversi, da deficit idrico, da incendi boschivi. Precisa inoltre i rischi su cui il Servizio nazionale può essere chiamato a cooperare: chimico, nucleare, radiologico, tecnologico, industriale, da trasporti, ambientale, igienico-sanitario, da rientro incontrollato di satelliti e detriti spaziali.
Comunità scientifica. Il Codice chiarisce i criteri di operatività nel Sistema di protezione civile, che vede ammissibili soltanto quei prodotti reputati maturi secondo le regole del mondo scientifico. La Comunità scientifica partecipa al Servizio Nazionale sia attraverso attività integrate, sia attraverso attività sperimentali propedeutiche.
Centri di Competenza. Il Codice codifica la funzione dei Centri di Competenza, la cui specificità è realizzare prodotti che possano essere utilizzati in ambito di protezione civile. I Centri di Competenza, da strumenti del Dipartimento diventano con il Codice strumenti dell’intero Sistema.
Partecipazione dei cittadini alle attività di protezione civile. Il Codice introduce il principio della partecipazione dei cittadini finalizzata alla maggiore consapevolezza dei rischi e alla crescita della resilienza delle comunità. Tale partecipazione può realizzarsi in vari ambiti, dalla formazione professionale, alla pianificazione di protezione civile e attraverso l’adesione al volontariato di settore.