Il disastro di Seveso

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Fonte foto. ANSA.it

Il disastro di Seveso è il nome con cui si ricorda l’incidente, avvenuto il 10 luglio 1976 nell’azienda ICMESA di Meda, che causò la fuoriuscita e la dispersione di una nube di diossina TCDD, una sostanza artificiale fra le più tossiche. Il veleno investì una vasta area di terreni dei comuni limitrofi della bassa Brianza, particolarmente quello di Seveso. 
Il disastro, che ebbe notevole risonanza pubblica e a livello europeo, portò alla creazione della direttiva 82/501/CEE, nota anche come direttiva Seveso.
Si trattò del primo evento nel quale la diossina era uscita da una fabbrica e aveva colpito la popolazione e l’ambiente circostante. Secondo una classifica del 2010 del periodico Time, l’incidente è all’ottavo posto tra i peggiori disastri ambientali della storia. Il sito americano CBS ha inserito il disastro tra le 12 peggiori catastrofi umane ambientali di sempre.

 

Contesto

Presso l’ICMESA di Meda, industria chimica di proprietà della Givaudan, a sua volta controllata da La Roche, vi era una linea di produzione di 2,4,5-triclorofenolo, una sostanza impiegata nella produzione di diserbanti, fungicidi e battericidi. Per soddisfare l’elevata domanda i cicli produttivi settimanali vennero incrementati da 4 a 4,5: la produzione di triclorofenolo era attiva dal lunedì al venerdì e la lavorazione del ciclo lasciato a metà di venerdì riprendeva il lunedì seguente.

 

Eventi

Verso le 12:28 di sabato 10 luglio 1976, nello stabilimento della società ICMESA, sito nel territorio del comune di Meda sul confine con quello di Seveso (all’epoca in provincia di Milano, oggi nella provincia di Monza e della Brianza, in Lombardia) il sistema di controllo del reattore chimico A101 destinato alla produzione di triclorofenolo, un componente di diversi diserbanti, andò in avaria, consentendo alla temperatura e alla pressione di salire oltre i limiti previsti. La causa prima fu probabilmente l’arresto volontario della lavorazione senza che fosse azionato il raffreddamento della massa, quindi l’esotermicità della reazione non fu contrastata; ciò fu aggravato dal fatto che nel processo di produzione l’acidificazione del prodotto veniva fatta dopo la distillazione, e non prima.

L’alta temperatura raggiunta causò una modifica della reazione, che comportò una massiccia formazione di 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina (TCDD), sostanza comunemente nota come diossina, una delle sostanze chimiche più tossiche. L’elevata pressione raggiunta nel reattore causò lo scarico del contenuto verso un sistema di sfogo, dove il disco di rottura non resse alla pressione ed esplose, causando la dispersione in atmosfera del contenuto del reattore. Un operaio di un reparto vicino, udendo un sibilo proveniente dal reparto B, dopo avere avvisato il capo della produzione, entrò nel reparto per avviare manualmente il sistema di raffreddamento del reattore, prevenendone l’esplosione.

La TCDD fuoriuscì nell’aria in quantità non definita e venne trasportata dal vento verso sud-est. Si formò quindi una nube tossica, visibile a occhio nudo, che colpì i comuni di Meda, Seveso, Cesano Maderno, Limbiate e Desio. Il comune maggiormente colpito fu Seveso, in quanto situato immediatamente a sud della fabbrica.

Le prime avvisaglie furono un odore acre e infiammazioni agli occhi. Nei giorni immediatamente successivi all’evento si iniziarono a osservare gli effetti su flora e fauna: danni chimici sulle colture, morte improvvisa di piccoli animali domestici e uccelli, ustioni cutanee.

Foto di proprietà di Francesca Gorzanelli

 

La certezza di dispersione di TCDD venne confermata il 14 luglio da analisi effettuate da Givaudan presso i suoi laboratori a Dübendorf, ma le autorità italiane non vennero informate. Il 15 luglio i sindaci di Seveso e Meda, dietro consiglio di un ufficiale sanitario locale, emisero ordinanze per proibire di toccare ortaggi, vegetazione, terreno e animali domestici e di adottare una scrupolosa igiene delle mani e dei vestiti, e successivamente venne ordinato di non ingerire prodotti di origine animale provenienti dalla zona inquinata. Solo sette giorni dopo l’evento la notizia apparve sui giornali.

Estensione delle zone A, B e R e posizione dell’ICMESA




Il 19 luglio Givaudan ammise la presenza di diossina nella nube tossica e il 21 luglio venne confermata dal Laboratorio provinciale di igiene e profilassi. Il territorio di Seveso a ridosso dell’ICMESA fu suddiviso in tre zone a decrescente livello di contaminazione sulla base delle concentrazioni di TCDD nel suolo: zona A (suddivisa in 7 sotto-zone), B, e R. Le abitazioni comprese nella zona A, la più colpita, furono divise nelle sotto-zone A1-A5. Il 24 luglio, con due rispettive ordinanze, i comuni di Seveso e Meda ordinarono l’evacuazione entro il 26 luglio della zona A, inizialmente estesa per circa 15 ettari ma successivamente espansa a più riprese.
Complessivamente tra il 26 luglio e il 2 agosto vennero evacuati 676 cittadini di Seveso e 60 di Meda, che vennero provvisoriamente collocati in due hotel nel milanese, uno a Bruzzano e uno ad Assago. La maggior parte di loro sarebbe rientrata nelle loro case bonificate tra ottobre e dicembre 1977, mentre 41 famiglie non poterono tornare perché le loro case vennero distrutte. Sarebbero state ricostruite negli anni seguenti. Inoltre circa 240 persone, per la maggior parte bambini, vennero colpite da cloracne, una dermatosi provocata dall’esposizione al cloro e ai suoi derivati, che crea lesioni e cisti sebacee.
Quanto agli effetti sulla salute generale, essi sono ancora oggi oggetto di studi. I vegetali investiti dalla nube si disseccarono e morirono a causa dell’alto potere diserbante della diossina, mentre migliaia di animali contaminati dovettero essere abbattuti. La popolazione dei comuni colpiti e l’Italia intera vennero però informati della gravità dell’evento solamente otto giorni dopo la fuoriuscita della nube, con un’ordinanza del sindaco che vietava di ingerire e toccare i prodotti ortofrutticoli della zona. Nell’area più inquinata (Zona A), il terreno fu asportato (fino a una profondità di 80 cm) e depositato in vasche. Fu poi collocato un nuovo terreno proveniente da zone non inquinate ed effettuato un rimboschimento, che ha dato origine al Parco naturale Bosco delle Querce.

 

La decontaminazione

Nella zona A il primo strato di terreno venne rimosso fino a 80 cm di profondità e gli edifici al suo interno vennero demoliti. La zona A venne presidiata dalle forze dell’ordine per impedire a chiunque di entrarvi. La zona B, contaminata in minor misura, e la zona R, ovvero zona di rispetto, vennero tenute sotto controllo e vi fu imposto il divieto di coltivazione e di allevamento.
Dal momento che la zona A era stata completamente sgomberata da abitazioni e vegetazione, per smaltire le scorie contaminate si pianificò la costruzione di un inceneritore. Alcuni comitati locali si opposero alla scelta sostenendo che, anche a causa delle scarse conoscenze sulla TCDD dell’epoca, la costruzione avrebbe interessato terreno contaminato (la profondità fino alla quale la diossina era penetrata non era e non poteva essere nota) e che le temperature di lavoro dell’inceneritore non avrebbero eliminato la diossina. In sostituzione dell’inceneritore vennero allestite due vasche di discarica.
A inizio degli anni 1980 vennero create due enormi vasche di contenimento, costantemente monitorate, nelle quali venne riposto tutto ciò che era presente nella zona A: il terreno rimosso, le macerie dell’ICMESA (che venne demolita essendo altamente contaminata), il reattore da cui originò l’incidente (sigillato in un sarcofago di cemento) e anche i macchinari utilizzati per la demolizione e gli scavi. Al di sopra di queste due vasche poi sorse il Parco naturale Bosco delle Querce, tuttora aperto alla popolazione. Oggi le due vasche (quella medese da 80 000 metri cubi e quella sevesina da 200 000 metri cubi) sono ancora monitorate, per evitare il rischio di una nuova contaminazione. Due ulteriori discariche di dimensioni minori sono collocate a Cesano Maderno e Bovisio Masciago.

Le conseguenze

Impatti sulla salute

Tra i primi effetti sull’organismo risultanti dall’esposizione a TCDD vi fu la cloracne, che coinvolse in particolare i bambini: su 214 bambini di età 3-14 anni residenti nella zona A, 42 manifestarono cloracne e tra i 54 residenti nelle sottozone più contaminate i casi furono 26.
Ricerche effettuate verso la fine degli anni novanta sulla popolazione femminile hanno mostrato, a venti anni di distanza, una relazione tra esposizione alla TCDD in periodo prepuberale e alcuni disturbi. Uno studio pubblicato nel 2008 ha evidenziato come ancora a 32 anni di distanza dal disastro gli effetti, misurati su un campione statisticamente ampio di popolazione siano elevati. Nello studio, in sintesi, la probabilità di avere alterazioni neonatali ormonali conseguenti alla residenza in zona A delle madri è 6,6 volte maggiore che nel gruppo di controllo. Le alterazioni ormonali vertono sul TSH, la cui alterazione, largamente studiata in epidemiologia ambientale, è causa di difetti fisici e intellettuali durante lo sviluppo.
Secondo studi pubblicati nel 1996 e nel 2000 sulla rivista The Lancet è stato rilevato un aumento delle nascite di femmine rispetto ai maschi, ma riconducibile a famiglie in cui il padre era stato esposto a diossina e la madre non esposta. Nei casi in cui invece fu la donna a essere esposta e l’uomo no, il rapporto maschi-femmine nella prole rimase normale.
Nel 2011 è stato pubblicato uno studio volto a verificare un’eventuale relazione tra esposizione a TCDD e produzione di sperma coinvolgendo 97 uomini nati tra il 1977 e il 1984, di cui 39 nati da madri che vivevano in aree contaminate e 58 in aree confinanti non coinvolte; tra i primi 39, 21 sono stati allattati al seno. Le madri esposte avevano una concentrazione media di diossina nel siero di 26 parti per trilione, mentre la media per il gruppo di confronto era di 10 ppt. Dallo studio è emerso che nei 21 allattati al seno la quantità, la concentrazione e la motilità dello sperma prodotto erano notevolmente ridotte rispetto a quelle dei 58 campioni di confronto.
Negli anni immediatamente successivi all’incidente si è osservato, esclusivamente nella zona A, un incremento di insorgenza e mortalità per patologie cardiocircolatorie e broncopolmonari negli uomini e ipertensive nelle donne, probabilmente dovuto principalmente dallo stato psicologico conseguente all’evacuazione e alla bonifica.
A oggi la TCDD è classificata nel Gruppo 1 – Certamente cancerogeni per l’uomo dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro.
L’ipotesi dell’aumento di tumori riscontrati nella zona è invece controversa. Il monitoraggio incominciato nel 1984 dal prof. Pier Alberto Bertazzi (Università degli Studi di Milano) ha messo in luce che un effetto c’è stato ma è stato modesto. Nelle zone più inquinate (A e B) ci sono stati in trent’anni 18 casi in più rispetto alla media dei Comuni limitrofi (dati 2006 confermati nel trend da quelli del 2016). Si tratta in gran parte di mielomi e leucemie. Sui residenti nelle aree contaminate sono stati condotti studi su incidenza e mortalità tumorali, utilizzando come confronto i residenti dei comuni vicini non interessati dall’evento; complessivamente i comuni interessati sono Lentate sul Seveso, Barlassina, Meda, Seveso, Cesano Maderno, Seregno, Bovisio Masciago, Varedo, Desio, Nova Milanese e Muggiò. Nel corso degli anni sono emersi i seguenti risultati:

  • tra i residenti nell’area contaminata non si è osservato un incremento complessivo rilevante di tumori maligni;
  • nello specifico, però, si è osservato un incremento di linfomi, leucemie e mielomi nelle zone A e B;
  • tra il 1977 e il 2012 si è osservato anche un eccesso di tumori al retto sempre nelle zone A e B;
  • l’incidenza del tumore alla mammella era circa raddoppiata in zona A.

Legislazione industriale

Nel 1982 il Parlamento e il Consiglio europeo hanno adottato la direttiva 82/501/CEE, nota come direttiva Seveso, con la quale si è adottata una linea comune nell’identificazione degli impianti industriali a rischio e sulla prevenzione di grandi incidenti legati a questi siti. Nel 1996 venne adottata la direttiva Seveso II, con la quale si è ridotto il numero di sostanze definite pericolose ma si è aumentato il campo di applicazione della direttiva. Nel 2012 è stata adottata la direttiva Seveso III tenendo conto delle modifiche avvenute alla legislazione UE sulla classificazione delle sostanze chimiche pericolose e concedendo più potere ai cittadini.

Seveso e la legislazione sull’aborto

Quando accadde l’incidente, le conoscenze sulla diossina nel mondo erano quasi nulle, perché prima di allora non era mai stato possibile esaminare gli effetti della TCDD sull’uomo. Come ha raccontato il prof. Paolo Mocarelli dell’Ospedale di Desio, «Le fotocopie dei pochi lavori sulla diossina sono arrivate dalla National Academy of Sciences per via aerea». Si seppe così che la diossina aveva effetti tossici sugli animali, ma con reazioni molto diverse tra le specie e nei periodi dello sviluppo. In alcuni casi aveva dato effetti teratogeni, ossia in grado di alterare il normale sviluppo del feto. Nonostante all’epoca del disastro in Italia l’aborto fosse vietato, fatte salve alcune deroghe concesse dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 27 del 1975, nelle quali non rientrava comunque il caso delle ipotetiche malformazioni ai feti, il 7 agosto 1976 due esponenti democristiani, l’allora Ministro della sanità Luciano Dal Falco e quello della giustizia Francesco Paolo Bonifacio, ottenuto il consenso del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, autorizzarono aborti terapeutici per le donne della zona che ne avessero fatto richiesta. Aborti vennero praticati presso la clinica Mangiagalli di Milano e presso l’ospedale di Desio. I resti degli aborti furono inviati in Germania, a Lubecca, per gli opportuni controlli.
La risposta ufficiale giunse nel 1977: pur non essendo evidenti i segni di malformazioni, non era possibile stabilire se queste si sarebbero sviluppate, dato che: «Alcune anomalie congenite, in particolari quelle minori a carico di certi organi – per esempio il cervello – non sono identificabili nelle prime fasi di sviluppo. Inoltre, le conclusioni che si possono trarre da questi studi devono tenere conto del numero limitato di casi studiati, del fatto che gli embrioni erano di diversa età e fase di sviluppo, e del fatto che nella maggior parte dei casi l’embrione non era integro». Nonostante tutto i bambini nati immediatamente dopo il disastro non riportarono malformazioni di alcun genere.
All’epoca ci fu un serrato dibattito riguardo l’opportunità di ricorrere all’aborto terapeutico, nonostante la mancanza di certezze scientifiche. Nicola Adelfi su La Stampa propose di rendere l’aborto coatto, così «si cancellerebbe ogni resistenza affettiva, ogni scrupolo morale o di natura religiosa nelle persone interessate». Dissentivano Avvenire, L’Osservatore Romano, i cattolici locali con il giornale Solidarietà (dove scrivevano, tra gli altri, Dionigi Tettamanzi, Gervasio Gestori, Giancarlo Cesana, Renato Farina) che uscì la prima volta il 29 agosto 1976 e Il Giornale di Indro Montanelli che scrisse: «Il rischio è per i bambini, non per la madre: si tratta di aborto eugenetico, e non terapeutico». II cardinale di Milano, Giovanni Colombo, disse: «Plaudendo all’offerta generosa di alcuni coniugi che si sono dichiarati pronti ad adottare un bambino nato deforme, invitiamo tutte quelle coppie che si sentono di fare altrettanto a darne indicazione a noi o ad altri». Il dibattito sulla necessità di una regolamentazione dell’aborto attraverso leggi dello Stato da anni interessava l’opinione pubblica, acquistando vigore proprio da questo evento e dal dramma che stavano vivendo le donne della zona contaminata. Si arrivò pertanto all’emanazione della legge 22 maggio 1978, n. 194, confermata poi dal referendum del 1981.